90s Folk Rock & Ethno Grooves - RYM/Sonemic (2023)

A list by Hemigalus

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90s Folk Rock & Ethno Grooves - RYM/Sonemic (1)

Chi ha vissuto la metà dei ’90 non può non essersi accorto di un’estetica che stava attraversando varie correnti e filoni e che poteva, stava diventando una sorta di scena omogenea ma probabilmente non lo è mai diventata veramente, per eccesso di labilità tra i collegamenti e per un pubblico per certi versi scarso oppure troppo trasversale. Io, in crisi col metal che all’incirca dal ’93 stava rapidamente deteriorando e verso il ’95 mi offriva gli ultimissimi appigli per me decenti, mi ci stavo aggrappando cercando di tirare le fila qua e là, non del tutto consapevolmente, ma poi appunto la cosa per mancanza di concretezza sfuggiva un po’ da tutti i lati. Si tratta di un universo che ha al centro il concetto di folk, declinato poi in moltissimi modi e sempre decisamente contaminato, e che ha varie radici nel passato ma una configurazione tipicamente anni ’90.

Io ci arrivavo per metà dagli spunti folk che nel metal dopo gli anni ’80 stavano decisamente moltiplicandosi, andando a condire di antichità, ancestralità, identità culturale locale, letterarietà gli elementi fantasy/epici già al centro dell’universo heavy metal, sia più classico sia più estremo. Gli Skyclad, i Bathory successivamente ribattezzati pessimamente “viking”, quelli di Hammerheart e Twilight of the Gods, i 3rd and the Mortal, i Blind Guardian di Lord of the Rings ma soprattutto in vari momenti di Somewhere far Beyond, Gli Amorphis di Tales from the Thousand Lakes e tutto il lato melodico del death di Göteborg, ben più che semplicemente maideniano, poi ancora i Moonspell di Wolfheart, gli Atrocity del dimenticato EP Calling the Rain, addirittura i Sepultura “tribali”, e chissà quante altre cose.

Poi avevo un altro filone di ascolti che confluiva naturalmente in questo, che usavo da “chill out” dal metal: quella che ai tempi si chiamava “musica celtica”, senza preoccuparsi troppo della patente di tradizionale o al contrario di autoriale contemporaneo che aveva di volta in volta. I Clannad pop (ma quanta classe e quanto spirito sperimentale) su RCA (bellissima la raccolta Pastpresent), Enya, finalmente oggi rivalutata e influente oltre che semplicemente fenomeno da classifica, Loreena McKennitt, ai tempi me ne ero innamorato e ha indiscutibilmente i suoi momenti, i Capercaillie prima che si mettessero a scrivere pezzi pop, che francamente non erano confrontabili con le loro interpretazioni folk. Su Narada uscì Celtic Odyssey, una raccolta bellissima, ancora molto tradizionale rispetto alla musica celtica come sarà considerata da lì a breve, ma già con quel flavour – a partire dall’estetica della copertina e dall’armamentario concettuale, a pensarci bene assurdo: sarebbe come dire che la musica, che ne so, toscana arrivata a noi, che magari ha sì e no 200 anni, è musica “romana” (nel senso della romanità antica), ma qui si entra anche in tutto un discorso politico complicatissimo – con quel flavour dicevo sia visivo, estetico, sia con una produzione e degli arrangiamenti che ben ci si accompagnano, che vira molto sull’atmosferico, ancestrale e mistico, un approccio alla musica celtica che, più che di tanti altri precursori, mi pare di poter in gran parte attribuire alla lenta influenza dei progetti in cui è stato parte, come musicista o produttore, Donal Lunny. A Celtic Odyssey seguirà un’altra raccolta su Narada, Celtic Legacy – A Global Celtic Journey, molto più “new age” nello spirito, che si trovò questa sì davvero nel pieno dell’esplosione della mania celtica. Io trovavo cose interessanti in questa moda prima che toccasse le edicole, e non a caso nel ’94 mi innamorai del primo album dei Modena City Ramblers (strainnamorati a loro volta dell’Irlanda, e della Scozia, e della musica di quelle terre). Con cui si entra decisamente, sia pur in un modo tutto loro, nel territorio di cui sto parlando.

Poi, altro ampio ambito in un cui pescavo in un filone con un’anima folk, era la musica goth o alternativa più scura del momento: il lato oggi si direbbe alt country del Nick Cave di Henry’s Dream e folk/blues della PJ Harvey di To Bring You My Love, il folk immaginario dei CSI e di altri del loro giro, i meravigliosi Dead Can Dance che man mano suonavano sempre più antichi, folk, etnici, scoperti dal grande pubblico (sempre relativamente mi pare) solo dopo la partecipazione di Lisa Gerrard alla colonna sonora de Il Gladiatore. Veramente uno dei segreti meglio custoditi, ahiloro, della musica tutta. Poi quello che si chiamava folk apocalittico, oggi da tempo ribattezzato neofolk, e altre curiosità nostrane non di grande valore artistico ma che nutrivano questa estetica.

Questi erano appunto soltanto i miei canali di ingresso di allora, che dimostrano che c’era senz’altro nell’aria un elemento folk/etnico che attraversava varie correnti e sottoculture. Che permise la nascita di un nuovo folk con radici negli esperimenti folk rock (o folk elettrico) inglesi e franco-bretoni dei ’70, nella musica politica dei ’60-’70 senza però perversioni puristiche; poi, nello specifico in Italia, in quel tardo fenomeno che con uno spirito anche abbastanza prog riprendeva il folk rock anni ’70 in gruppi e progetti come La Ciapa Rusa, Calicanto, Cantovivo ecc. ecc., infine nel contemporaneo universalismo della world music (vedi l’etichetta Real World di Peter Gabriel) e dell’“etnico”. Con un taglio anche di ricerca o mitizzazione dell’estasi, della trance, della meditazione, degli stati alterati di coscienza, che aveva più di un collegamento con i rave e con l’elettronica da (s)ballo. Quando a un buskers festival di Pelago, sull’appennino fiorentino, mi ritrovai in mezzo a una fetta molto eterogenea (ma con una grossa componente freak) di partecipanti, in cui tutti si misero a cantare e ballare su una versione improvvisata di Il Signore di Baux di Branduardi, quando magari il giorno prima la stessa gente mi parlava della Goa trance, quello fu un momento epifanico che mi disse che qualcosa che somigliava a un’appartenenza, anche inattesa, come quella metal da cui uscivo, forse la stavo trovando.

Poi, più tardi, con Celtica in edicola, le versioni italiane delle Renaissance fair che abbracciavano la cultura cosplay e diventavano spudoratamente la Festa dell’Unicorno, il festival della Notte della Taranta, direi si può dire che il mercato aveva completamente sopravanzato la creatività del momento, lasciando comunque alle spalle un pugno di anni in cui ognuno può trovare dei percorsi più o meno personalizzati ma abbastanza oggettivamente identificabili, al punto che oggi si vedono tracce di revival (per la verità non di grande qualità) per esempio in quel filone di musica ancestrale uscito dal metal estremo, a cui per esempio i Garmarna, protagonisti della stagione d’oro del folk rock scandinavo che è forse il punto dove l’estetica qui delineata ha concretizzato maggiormente una simil-scena, si stanno accodando con una reunion non riuscitissima. Questo fenomeno di revival di origine metal non funziona a mio avviso perché manca totalmente un attacco serio alla tradizione (i Lou Dalfin, ad esempio, nel momento d’oro, facevano una sorta di rock ma venivano dalla ricerca e riproposizione pura del tradizionale), che era un elemento decisivo della miscela. Così come lo era un elemento antagonista, che poteva essere in una matrice punk, gotica, heavy metal o punkabbestia, o almeno di riscoperta giovanile delle tradizioni come nella moda del tarantismo, ma persa quella, imborghesita anche la componente più giovane del pubblico, ha perso totalmente di mordente. Più che dal revival, oggi la speranza che sia ripreso un discorso analogo a questo filone etnico viene invece da contaminazioni veramente contemporanee, eclettiche e profonde, come nel tishoumaren o in gruppi come i Saodaj dall’isola Reunion.

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Author: Terence Hammes MD

Last Updated: 03/17/2023

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